L’odierno panorama delle trasformazioni sociali e urbane, ci pone davanti alla sfida dello sviluppo sostenibile delle nostre città in un’ottica di politiche condivise e collaborative, di progettazione intersettoriale e multi-stakeholders. In questo contesto, la rigenerazione urbana e l’innovazione sociale, se letti come strumenti interdipendenti e strettamente connessi, sembrano porsi come soluzioni a queste sfide, provando a recuperare non solo tessuti urbani, ma soprattutto tessuti umani.
In questo senso si intendono infatti quei processi (e non progetti, del perché se ne parlerà più avanti) che coinvolgono in primis una comunità. Un gruppo di persone, amici, professionisti, vicini di casa, che attorno ad un luogo, uno spazio, un edificio, costruiscono nel tempo un sistema di relazioni e servizi, rivolti alla tutela e alla valorizzazione di un bene, che prende nuova vita come bene collettivo, a cui la comunità restituisce un significato, sia per le sue qualità architettoniche e\o urbanistiche, quanto per il nuovo valore che genera sul territorio. Valore dato dal processo portato avanti e dalle azioni rivolte agli abitanti di quei territori. Sono azioni che ambiscono all’implementazione dei servizi di welfare, di attività culturali, o semplicemente di spazio pubblico (necessità peraltro assai urgente nelle circostanze in cui ci troviamo).
Negli ultimi vent’anni infatti, il progressivo arretramento del ruolo del pubblico nella capacità di erogazione di servizi e i mutati bisogni della società contemporanea, hanno portato all’emersione di nuove istanze collettive tradotte sempre in modo nuovo e difficilmente replicabile a seconda dei contesti, dei territori e delle comunità di riferimento.
Non solo. le nostre città, i nostri modelli di abitare, produrre, muoversi, com’è risaputo (e ne viviamo ogni giorno le devastanti conseguenze), non sono modelli sostenibili di sviluppo, sono modelli energivori e consumatori di risorse.
Tra gli obiettivi posti globalmente con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, si rende necessario “potenziare un’urbanizzazione inclusiva e sostenibile e la capacità di pianificare e gestire in tutti i paesi un insediamento umano che sia partecipativo, integrato e sostenibile”.
La crisi del 2007 aveva già messo in crisi i progetti di rigenerazione a forte guida pubblica, basati sulla crescita urbana ed economica e sulla competizione tra città. Progetti che, nonostante abbiano recuperato spazi dismessi, spesso produttivi e industriali, re-inserendoli nel patrimonio urbano come bene ad uso pubblico o privato, hanno avuto forte carattere speculativo. Carattere che ha negli anni portato a esiti spesso conflittuali e che hanno alimentato processi di gentrification, forme di disuguaglianza ed esclusione.
Pertanto, con il termine rigenerazione urbana si vogliono qui intendere quei processi in cui alla riqualificazione di uno spazio si accompagna un’innovazione di carattere sociale, un cambiamento urbano che tiene in considerazione la sfera partecipativa e collettiva delle comunità, che quello spazio lo trasformano, lo vivono, lo rigenerano.
Difatti la rigenerazione urbana ha assunto negli anni, diverse accezioni: dalla dimensione “hard” della riqualificazione urbanistica e architettonica, alla dimensione “soft”, ovvero alla dimensione organizzativa, economica, sociale e relazionale. Questi processi si pongono oggi come interventi di trasformazione fisica dei luoghi che generano non solo benefici economici legati al recupero degli spazi, ma generano benefici sociali in termini di costruzione di relazioni e di comunità.
Attraverso questi processi le comunità si riappropriano degli spazi, si riappropriano del loro necessario protagonismo nelle dinamiche di sviluppo urbano, rispondendo ai sempre mutevoli bisogni di una società in continua trasform-azione.
In Italia infatti, negli ultimi dieci anni, tanti interventi e progettualità di rigenerazione urbana sono entrati nel dibattito politico e soprattutto scientifico, cominciando a costruire nuove sinergie intersettoriali e transdisciplinari, ma soprattutto nuovi modi di collaborazione tra pubblico e privato. Ci si rivolge infatti in questo senso alla costruzione di politiche sempre più orizzontali basate sul coinvolgimento di privati, enti del terzo settore e cittadini. Attraverso queste dinamiche le amministrazioni hanno messo a disposizione aree ed edifici di proprietà pubblica per restituirli alle comunità, trasformandoli in spazi per l’innovazione e aprendo un nuovo e proficuo dialogo tra pubblico e privato.
Sono tante le realtà che in Italia lavorano in questa direzione e su queste esperienze si costruiscono, all’interno delle amministrazioni più illuminate, politiche e strategie innovative nella gestione di questi processi, nati soprattutto dalle esigenze delle comunità. Sono diventati oggetto di politiche urbane su cui si fonda la capacità di una città di attrarre di risorse, persone e competenze.
I Patti di Collaborazione e i Laboratori di Quartiere di Bologna, la Rete delle Case di Quartiere di Torino, la Dichiarazione d’uso civico e collettivo di Napoli, il programma Bollenti Spiriti in Puglia sono frutto di un lavoro e di una mobilitazione operata dal basso, che hanno permesso un ribaltamento del ruolo dell’istituzione nella capacità di decidere e intervenire per rispondere ai bisogni delle comunità. Queste politiche, diventate ormai best practices nel contesto italiano ed europeo per i loro risultati in termini di impatto economico e sociale, mirano all’abilitazione e alla legittimazione delle azioni di comunità nel recupero di beni dismessi o sotto-utilizzati di proprietà pubblica per re-inventarli come collettori e contenitori di istanze, attività e progettualità, in un’ottica democratica e partecipativa.
In questo scenario, in territori in cui le amministrazioni non hanno ancora la capacità di accompagnare queste pratiche, processi di rigenerazione vengono attivati e sviluppati da soggetti privati che recuperano aree ed edifici per restituirli alle comunità come spazio pubblico, o semplicemente si prendono cura di alcuni spazi. Tali esperienze sono capaci di attrarre flussi, talvolta inaspettati, di risorse, competenze, persone, idee e creatività, e allo stesso tempo di innescare attivismi civici, che se messi a sistema, possono contribuire allo sviluppo dei territori.
È il caso di nuovi centri di innovazione sociale e culturale, che non nascono nelle grandi città, ma nelle aree metropolitane, nei territori peri urbani e nelle aree interne. Territori dalle ingenti risorse in termini di capitale ambientale, storico e paesaggistico che potrebbero generare ulteriore valore se dotate di nuove visioni strategiche che mirino a una re-infrastrutturazione fisica, sociale e culturale dei territori, che abiliti le comunità al cambiamento.